In NBA, come nel basket in generale, ci sono diversi tipi di giocatori che compongono i roster. I più famosi, ma non per questo i più importanti, sono le stars. I leader in campo e fuori, giocatori che riescono a trascinare una squadra intera, quelli che segnano tanto e sempre. Ma le squadre sono composte anche da altri “role player” come ad esempio i giocatori che escono dalla panchina, sicuramente meno acclamati e meno ricordati dai tifosi superficiali, ma chi mastica basket sa che avere dei buoni ricambi quando le star di cui sopra devono rifiatare non è un fattore indifferente. Oggi andremo ad analizzare due giocatori simili nell’apporto ma diversi nello stile di gioco che stanno facendo le fortune delle cosiddette “second unit”.
Parliamo di Julius Randle e di Domantas Sabonis. Entrambi molto giovani, rispettivamente classe 1994 e 1996, entrano a partita in corso per i Pelicans e i Pacers. Entrambi nascono per coprire il ruolo di power forward ma non si tirano indietro quando devono sgomitare con quelli di una taglia in più, i centri per intenderci (inoltre Randle si adatta anche ad ala piccola per giocare insime a Davis e Mirotic, fattore da non sottovalutare la polivalenza). Come detto entrano a partita in corso, sono dei diesel, qualche minuto per carburare a fine primo quarto e poi via, non si fermano più, ma non per modo di dire, proprio non si fermano più come stanotte: tripla doppia per Randle contro gli Spurs con 21p-14r-10a e 19p-9r-9a per Sabonis contro i Jazz (mica due difese qualunque). Pur uscendo dalla panchina il loro minutaggio si aggira intorno ai 27 minuti.
Come anticipato il loro apporto è simile: punti, rimbalzi, alte percentuali e solidità, ma il modo di giocare è molto diverso: Julius è una molla energica, fisico reattivo e difficile da contenere, si butta sempre a rimbalzo. La dinamicità è il suo punto forte.
Domantas invece è un tipo più tranquillo, più statico ecco, quando prende posizione vicino a canestro è difficile spostarlo, polpastrelli delicati da vicino e mano elegante dalla lunga distanza, non lo trovi 10 centimetri sopra il ferro ma sa sempre dove cadrà la palla per raccogliere il rimbalzo.
Sono accumunati anche da un inizio di carriera non facile: il lituano si è trovato ad OKC nel primo anno post Durant, il primo anno di Westbrook in tripla doppia di media, in cui era difficile emergere, c’era un uomo contro il mondo intero, i palloni e i rimbalzi erano pochi, c’era un uomo in missione, l’anno scorso arriva a Indiana, cresce, migliora e quest’anno è definitivamente esploso (attenzione che anche il suo compagno di reparto Turner è del ’96).
Cammino diverso per Randle, sempre e solo ai Lakers, piazza difficile da gestire, pressioni al massimo, squadra in crisi e da ricostruire senza un’identità, alterna buone prestazioni ad altre veramente pessime, poi viene ceduto senza pensarci due volte per far spazio a Lebron, nulla di male, arriva in una squadra attrezzata e rodata, sa che è il terzo lungo ma non si demoralizza, anzi si esalta.
Six man of the year? Occhio a questi due!
-Fabio Montin-
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