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Caccia alla Balena Bianca

Le finali NBA si apprestano a mettere in scena il loro ultimo atto ponendoci di fronte all’elettrizzante prospettiva di poter assistere almeno a due G6, ma nonostante l’aura di incertezza che avvolge entrambe le serie ci sono alcuni “key takeaways” che possiamo già distinguere in filigrana.


1) Moby Dick esiste e nuota nella Baia di San Francisco

Dopo l’anello da outsider nel 2015, il record di vittorie in RS vanificato dalla supponenza fatale nei PO 2016, e il tremendo upgrade Warriors 2.0 con l’aggiunta del più letale scorer del mondo aka Kevin Durant, Golden State resta la “grande balena bianca” che ossessiona tutti i capitani Achab del mondo NBA. Chiunque stia pensando di aumentare l’argenteria a casa procurandosi l’agognato anello deve elaborare una strategia per catturare il temibile cetaceo.


2) Houston Rockets o “l’arte del risk management applicata alla pallacanestro”

Tra gli aspiranti sfidanti ancora in corsa per l’anello 2018, Houston si presenta come la squadra più titolata per usurpare il trono dei californiani. Quello dei Rockets è un ardito esperimento che cerca di capovolgere i paradigmi cestistici attuali, portando all’estremo le valutazioni derivanti dalla “sport science”. Il deliberato ricorso al reiterato tiro da 3 alternato alla ricerca di comodi appoggi all’anello (o tiri liberi conquistati in penetrazione), e la conseguente scientifica abolizione del tiro dalla media distanza, consentono ai texani di massimizzare il rendimento offensivo e pongono quanto meno un rebus da risolvere per i campioni in carica.

Houston gioca un gioco radicalmente diverso da quello di Golden State, fatto di ritmo controllato, reiterato uso di ISO-ball affidato alle spiazzanti iniziative individuali di James Harden o Chris Paul che costruiscono l’attacco dopo insistiti palleggi stordenti conclusi da un canestro facile dal pitturato o un comodo scarico ai cecchini piazzati sull’arco.

Nulla a che vedere con la fluidità e la dimensione corale dell’attacco Warriors in cui la palla si muove con pochi palleggi e l’azione scorre pazientemente fino alla ricerca dell’uomo meglio piazzato per un canestro facile.

Houston non ha la profondità per battere Golden State giocando lo stesso basket. Se Harden è forse il più grande giocatore da 1 vs 1 dell’odierna NBA (e secondo alcuni di sempre), dall’altra parte Durant pareggia il conto con le sue devastanti capacità offensive, in compenso la seconda e terza opzione dei Rockets sono rispettivamente CP3 e Gordon, mentre i Warriors vanno con gli “splash brothers” Curry e Thompson, mediamente più performanti dei loro contraltari texani.

Si aggiunga la ben superiore flessibilità offensiva dei californiani che possono anche permettersi di far orchestrare il gioco da Iguodala o Draymond Green, lasciando le 3 principali bocche da fuoco a bombardare da ogni dove, per capire come i campioni in carica siano ancora gli uomini da battere.

Ciò che rende i Warriors davvero superiori sulla carta è però la totale interscambiabilità difensiva della gran parte dei suoi giocatori. Ad eccezione di Steph Curry, tutti gli altri uomini schierati in campo da coach Kerr possono scambiarsi a piacimento l’assegnazione difensiva “switchando” su ogni pick and roll senza temere di esporre il fianco a letali missmatch. Con Iguodala, Green, Durant, Thompson, Livingston sono in grado di opporre sempre massima resistenza alle scorribande del Barba, e contemporaneamente di tenere a bada Chris Paul senza esporre il fianco con big man dai piedi lenti incapaci di contenere un crossover.

Con il suo gioco estremizzato Houston mette in atto uno spregiudicato “risk management plan”, esponendosi a dei forti rischi nelle serate di scarsa vena dall’arco (vedasi batosta in G3), ma quantomeno provando a sfidare Golden State in un terreno di battaglia insidioso.

3) Il trionfo del bel gioco (e della freschezza) targato Celtics

Privi dei loro 2 più quotati giocatori (Irving e Hayward) gli imberbi Celtics erano dati per spacciati e destinati ad una fugace apparizione in post-season, ed invece li troviamo sul 3-2 ed imbattuti fra le mura amiche nei play-off, merito non solo del clima infuocato del Boston Garden, ma soprattutto del trionfo tattico-tecnico imbastito da Brad Stevens.

Con una strategia paziente Boston ha ordito una solidissima tela costruendo un roster giovane, poliedrico ed estremamente affiatato. Utilizzando una calzante metafora cinematografica potremmo dire che Stevens è il Robert Altman dei coach NBA ed è riuscito a metter su una squadra da Oscar senza dover fare affidamento su una stella di prima grandezza. Gli “enfant terrible” di Boston giocano a viso aperto e privi di qualsivoglia timore reverenziale, sfoderando una sicurezza magistrale anche quando la palla scotta. Tatum è ad un ventello dall’eguagliare il record di partite > 20 punti dei play-off, detenuto al momento da tale Kareem Abdul Jabbar, Rozier e Brown stanno giocando come veterani tenendo botta da entrambe le parti del campo. Tra i veterani Horford è il maestro del volo sotto altezza di radar, colui che fa sempre tutte le cose giuste che servono per vincere, e Smart è un grintosissimo energizer ubiquo, signore degli intangibles in grado di riempire sempre tutte le caselle di uno statssheet. Si aggiunga l’utilizzo geniale di comprimari come Baynes, decisivo nelle semifinali per limitare il fenomeno Embiid, o Morris, probabilmente il miglior Lebronbuster della stagione 17-18, e si ha un’idea del superlativo mosaico Celtics.

Per molti versi Boston rappresenta una versione meno talentuosa ma più fresca e ancor più corale dei Golden State Warriors. Totale intercambiabilità difensiva, attacco paziente e fluido, saggezza nella gestione del pallone anche quando il cronometro scotta: queste le parole d’ordine che spiegano perché i Celtics sono ad una vittoria dalle finali NBA.

Qui il capitano Achab sta cercando di clonare Moby Dick per carpirne il segreto e finalmente coronare il sogno di una vita. Troppo poco per avere sufficienti chance di portare a casa una gara al meglio delle 7 partite, ma abbastanza da impensierire i detentori del trono che in caso di scontro in finale dovrebbero tenere una guardia molto alta e non ricadere nei peccati di presunzione già costati cari nel 2016.


4) The King is tired

Il re è stanco. Stanco di tirare la carretta completamente da solo. Stanco di non poter uscire 2 minuti a rifiatare senza dover temere tracolli della sua squadra. Stanco di doversi caricare del peso di ogni azione, dal primo all’ultimo minuto di ogni partita.

Il re è stanco ed a corto di carburante, e i suoi compagni sembrano non aver mai fatto rifornimento. A parte qualche sprazzo di Kevin Love e gli eroismi del 37enne Korver, il supporting cast dei Cavs sta producendo prestazioni non degne di una squadra playoff.

King James resta un giocatore dominante in grado di vincere da solo qualsiasi partita, ma non può farlo ogni singola notte (“ogni maledetta domenica” avremmo potuto dire parafrasando Oliver Stone, se non fosse per il fatto che in NBA si gioca ogni giorno). Boston sta logorando James con la tenace difesa di Marcus Morris che ha stazza, fisicità e mobilità per rendere la strada impervia anche ad un gigante della palla a spicchi come Lebron. La difesa biancoverde può permettersi di cambiare su ogni pick and roll senza temere sistematici missmatch sfavorevoli, esattamente come fanno i Warriors. Contando sull’inettitudine del supporting cast di Cleveland, i Celtics stanno prosciugando le energie del re, spingendoci a pensare che anche the King sia un essere umano e non il cyborg che tutti sospettavamo.

I Cavs avranno il favore dei pronostici in G6 e nessuna persona non dotata di totale spregio del denaro scommetterebbe un euro contro Lebron in una G7, ma questi entusiasmanti Celtics hanno dimostrato che la freschezza e il bel gioco possono averla vinta anche contro i superuomini.



-Schizoid Zen-

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