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Il punto sulla stagione di Golden State


photo source: bleacherreport.com

Con quella dell’altra notte contro i Los Angeles Clippers, Golden State ha giocato l’ultima partita di regular season tra le mura domestiche. Una partita storica, poiché è stata l’ultima volta che i californiani hanno calcato il parquet della Oracle Arena – in realtà solo per la stagione regolare, i playoffs di quest’anno si giocheranno ancora lì -, che è stata la loro casa per ben 47 stagioni e che lascerà spazio, dal prossimo anno, ad uno nuovo modernissimo palazzetto al centro di San Francisco. Per l’occasione, gli Warriors hanno indossato la maglietta celebrativa del “We Believe”, un omaggio alla ottima squadra del 2007, quella dei Monta Ellis, dei Matt Barnes, dei Baron Davis, che entusiasmò il pubblico della Oracle vincendo, da sfavoriti, il primo turno diplayoff contro Dallas. Sulla partita c’è poco da raccontare, non c’è stata storia; Golden State ha passeggiato contro i Clippers privi di Gallinari e Baverley, chiudendo con uno scarto di 27 punti, trascinati da un ispiratissimo Steph Curry (27 i punti totali) e portando tutti gli uomini del quintetto di partenza in doppia cifra. Vista l’attuale situazione di classifica ad ovest, queste due squadre potrebbero affrontarsi di nuovo per il primo turno di playoff, occupando Golden state la prima posizione e Los Angeles l’ottava, l’ultimo spot utile per la post-season.

Con i playoffs ormai alle porte (finalmente!), è forse utile fare un breve recap della stagione di Golden state, che si ripresenta, a detta di tutti, per il quinto anno consecutivo come la favorita assoluta per il titolo. Anche quest’anno i campioni in carica hanno dato l’impressione di poter dominare, come e quanto volevano, contro ogni tipo di avversario; sono infatti primi per efficienza offensiva, primi negli assist per gara, per percentuale dal campo, per stoppate, e secondi, dietro solo ai Bucks, per punti per partita. Sono in cima alla super competitiva western conference, eppure non hanno quasi mai messo le marce alte per ottenere questo risultato. Dalla straordinaria stagione 2015-2016, quella in cui fecero segnare il miglior record ogni epoca per la stagione regolare, chiudendo con 73 vittorie e 9 sconfitte, il cui enorme sforzo per raggiungerlo pregiudicò non poco la vittoria del titolo finale, la squadra di Steve Kerr si limita a “controllare” la regular season (il che per loro equivale, comunque, ad aggiudicarsi la prima o seconda posizione nella propria conference) e a gestirsi, conscia della sua evidente e superiore forza, limitando quanto più possibile energie fisiche e soprattutto mentali in vista del vero obiettivo stagionale, le finals di Giugno. Più volte, infatti, allenatore e giocatori rappresentativi hanno dichiarato apertamente che tutto ciò che succede durante la lunga stagione regolare (risultati negativi, assenze pesanti, posizionamenti ecc.) ha un valore assai relativo, dal momento che si inizia a fare sul serio solo da metà aprile; d’altronde, che differenza può fare per loro classificarsi primi, secondi o quarti? Sono sempre loro quelli da battere. Questo“atteggiamento” è confermato dai numeri difensivi di quest’anno. Gli Warriors sono fuori dalla top ten per efficienza difensiva, davvero un unicum nella gestione Kerr, hanno inanellato una rarissima, per i loro standard, serie di quattro sconfitte consecutive nel mese di Novembre (che faceva presagire, secondo alcuni, ad una stagione molto diversa, in termini negativi, rispetto alle precedenti, ipotesi rivelatasi, poi, precipitosa e nient’affatto corroborata dai fatti) ed hanno perso non poche partite quest’anno con uno scarto di 20 punti o più, tra tutte spicca quella persa in casa contro la non irresistibile Dallas con un punteggio di 126 a 91. Si parla, tuttavia, di poca cosa rispetto alle difficoltà ed alle debolezze che hanno mostrato le principali squadre NBA, soprattutto le dirette contendenti al titolo (vedasi Boston o Houston). E' vero, però, che in questa stagione sono venute a galla, con inconfutabile evidenza, rovinose dinamiche di spogliatoio, che hanno evidenziato come gli equilibri interni dei due volte campioni in fila siano assolutamente fragili. In particolare, come è ovvio, ci si riferisce all’alterco, allo scontro pubblico, tra Durant e Draymond Green, il quale è senza dubbio alcuno il termometro emotivo e comportamentale della squadra: gli Warriors dipendono, anche tecnicamente, dall’atteggiamento di Green in campo. La lite tra i due, iniziata banalmente per chi doveva avere l’ultimo possesso della partita e proseguita con parole e dichiarazioni pesanti nell’immediato post-gara (alcune delle quali hanno portato alla squalifica di Green per una partita, propugnata dagli stessi Warriors), sembrava poter essere irreparabile, invece, si è giunti ad una inattesa conciliazione in un breve lasso di tempo – almeno per quanto concerne la sfera tecnica, di campo, diciamo, dei veri rapporti personali che intercorrono tra i due non c’è dato sapere – e la stagione, in questo senso, è poi proseguita senza intoppi. Di fatti, è questa l’unica preoccupazione che dovrebbe adombrare la mente di Steve Kerr e staff, le dinamiche interne, i malumori ed i nervosismi dei giocatori emotivamente più importanti (non solo Green e Durant,ma Curry e soprattutto Cousins): perchè l’avversario più forte, ad oggi, di Golden State è Golden State stessa. Gestire gli ego, non far sfociare in rabbia o frenesia la prorompente carica agonistica, rinunciare ognuno a qualcosa di personale per ottenere, alla fine, il più importante obiettivo comune - l’unico che conta realmente - il titolo, fare, insomma, quello che hanno fatto splendidamente in questi anni.

Lo stesso Demarcus Cousins, debuttante assoluto quest’anno ai playoffs, può rappresentare un’incognita. Arrivato in estate a sorpresa, dopo aver contratto il peggior infortunio della carriera, che lo ha tenuto fuori dal campo di gioco per circa un anno, e certo di rimanere nella baia solo per questa stagione – gli Warriors non hanno spazio salariale per prolungarne il contratto -, Cousins è alla ricerca del grande contratto della sua carriera, il che vuol dire che è quasi obbligato a fare bene. Non è facile inserirsi in un meccanismo così avanzato e armonioso come quello degli Warriors, soprattutto nel contesto dei playoffs, dove tensione ed intensità si alzano vorticosamente, contesto del tutto sconosciuto a Cousins, e visto e considerato che ancora non è – come è naturale che sia – il Cousins versione MVP di New Orleans. Delle sue capacità offensive non si discute, il talento è tutto lì da vedere, straordinario realizzatore e fine passatore, i dubbi, però, permangono sul suo apporto difensivo, da sempre la fase di gioco meno gradita al centro ex Sacramento; Steve Kerr più volte lo ha lasciato in panchina negli ultimi minuti di partita, preferendogli il già ben rodato Kevon Looney, ma non è tanto l’aspetto squisitamente tecnico-tattico a rappresentate un problema, quanto quello comportamentale. Tutto, infatti, starà nel vedere come e se Cousins accetterà di svolgere un ruolo di secondo piano, quale sarà la sua attitudine nei confronti dei compagni e dell’allenatore quando non sivedrà affidati quei possessi importanti che in altri contesti, sicuramente, sarebbero toccati a lui. Fino ad ora, a dir il vero, il suo comportamento, sotto questo punto di vista, è stato ineccepibile, forse, anche lui è ben conscio del fatto che o si comporta in un certo modo – lo stesso Durant rinuncia a qualcosa per Curry, il quale fa lo stesso per Thompson e viceversa, questo il vero segreto del loro successo – oppure resta fuori, perchè, per quanto possa sembrare strano dirlo, Golden State può vincere tranquillamente anche senza il suo apporto.

Al contrario, però, se l’ingranaggio Demarcus Cousins dovesse fare click, allora anche le già minime speranze degli avversari si scioglierebbero come neve al sole.

Questi, con ogni probabilità, saranno gli ultimi playoffs di Golden State per come li conosciamo - “the last dance”, come dicono dall’altra parte dell’oceano -, poichè la free agency estiva vede coinvolti due tasselli fondamentali della meravigliosa macchina californiana, Kevin Durant e Klay Thompson. Nulla è ancora deciso, tuttavia, sono alte le possibilità che gli amanti del basket non potranno più godere, a partire dalla prossima stagione, dello spettacolo unico offerto dai “fab four” in questi anni. Non è ancora giunto il tempo di disperarsi, manca tutta la migliore parte della stagione in cui poter ammirare una squadra che, senza dubbio alcuno, non ha eguali nella storia del gioco.


-Michele Silvano-

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