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Old but Golden State

Splash Brothers, Kevin Durant, Coach Kerr, Draymond Green.

I tifosi di Oakland, alias Golden State, hanno molto da festeggiare e riempire il loro palazzetto – la Oracle Arena – con urla, gioia, canti e colore, ora che la loro squadra è evidentemente infallibile.

Ma per trovare l'origine della festosità di Golden State non bisogna cercare nel loro quinto titolo NBA nel 2017, né in quello precedente, nel 2015. Bisogna scavare al tempo di MJ, quando la Association si preparava a salutare gli ultimi sforzi dei due messia della ricostruzione, Larry e Magic, e a farsi soffiare addosso il vento della novità, dai giocatori che sfidavano la fisica, a quelli che diventavano imprenditori, abbracciando giovani capaci di ispirare generazioni già ai tempi del college e altri che non riuscivano a divincolarsi dalla morsa delle umili origini e pericolosi percorsi umani.

Golden State era una franchigia che già da un paio d'anni dava soddisfazioni al proprio pubblico grazie alle geometrie di coach Karl, ma nel biennio 89-91, sotto la guida di Don Nelson, un meteorite di entusiasmo, passione e talento si apprestava a colpire la baia. Erano gli anni della “Run T-M-C”.

Ispirato ad un noto gruppo Hip Hop dell’epoca, Run DMC, il nome del fenomeno cestistico nasceva dalle iniziali dei suoi protagonisti.

T per Tim Hardaway, precursore del moderno cross-over, disseminatore di caviglie delle difese avversarie, annunciato dal telecronista di franchigia come “the Hardaway express”; uno dei pochi Point Guard dell’epoca che si sarebbe trovato perfettamente a suo agio nel gioco di oggi, padrone di un uno contro uno forte di eccellente palleggio (sua invenzione l’UTEP-Two Step, il velocissimo palleggio incrociato tra le gambe), impressionante rapidità di piedi e notevole creatività, al servizio non solo dei compagni ma anche del suo tabellino di punti segnati.

M per Mitch Richmond: nato guardia tiratrice, sorprendentemente atletico e forte, andava a canestro schiacciando con potenza a seguito di agilissimi contropiedi, o più banalmente tirava da qualunque posizione. Era l’anima appassionata del trio, determinato, grintoso, guidato da implacabile istinto competitivo.

C per Chris Mullin. In un’intervista durante le semifinali di conference del 1991, Magic Johnson disse: “quando Dio creò il giocatore di basket, plasmò Chris Mullin”. Fondamentali, lettura del gioco, mano sinistra morbidissima. Hall of famer e senza ombra di dubbio uno dei giocatori bianchi più importanti a cavallo degli anni 80-90, nonostante le vicissitudini personali e le debolezze dei primi anni di fama.

Se non vi basta, ciascuno di loro è oro olimpico, Mullin nella prima edizione del Dream Team (Barcellona ’92), Richmond nella seconda (Atlanta ’96) e Hardaway nella terza (Sidney 2000).

Le formidabili folate del trio seminavano il panico in qualunque difesa, disorientavano gli schemi protettivi avversari con i loro continui movimenti senza palla, gli extra-pass e lo schieramento degli effettivi sul perimetro, per consentire ad Hardaway il suo impressionante uno contro uno.

Se chiedete a loro, vi diranno che c’era una “playboard” - la lavagnetta su cui erano segnati gli schemi – ma non veniva mai usata perché, fondamentalmente, con loro tre in pista, il ballo era semplice per Coach Nelson: “condividete la palla e ogni tanto difendete. Per il resto, mi serve che facciate più punti degli avversari”.

Ed in effetti andava un po’ così. I Warriors della TMC non passarono alla storia per la coriacea difesa ma perché non vedevano l’ora di andare a canestro.

Ai tifosi, durante le partite in casa, veniva offerta la pizza se i loro beniamini superavano un certo numero di punti, e quando la squadra c’era quasi, la bolgia impazzita dell’arena esplodeva nel coro “Pizza – Pizza – Pizza”. Si consumarono molte pizze nella baia in quei due anni: nella stagione 90-91 seconda franchigia per media punti (116.6), il trio è il secondo best scoring trio tutt’oggi (72.5 punti di media), secondo di molto poco solo ai Denver Nuggets del ‘83; Mullin ottavo nella classifica marcatori, Hardaway decimo, Richmond undicesimo. La loro difesa era l’estenuante attacco. Ed in questa chiave di lettura ricevettero una grande mano da un compagno del calibro di Sarunas Marciulionis: lituano dal nome avventuroso, dal fisico di ferro e dalla volontà di chi deve riscattare una vita, una nazione, una passione ed un popolo. Oro a Seoul con la Russia, ma soprattutto bronzo a Barcellona 92 (e poi ad Atlanta 96) con la neo liberata Lituania, in uno scontro sovietico dagli amari risvolti sociali, storici e politici. Lo schiavo che si ribella al padrone, e vince. Marciulionis era stato selezionato nel 1987 in piena guerra fredda, ma gli ci vollero due anni prima di riuscire a trovare il modo (di nascosto) di scappare dalla Lituania non libera e dal regime russo e raggiungere gli States dove – racconta Chris Mullin – sarebbe scoppiato a piangere in un supermercato, vedendo la varietà di scelta della frutta.

Avete presente la costante voglia di attaccare il canestro di Russell Westbrook? Beh Marciulionis aveva un atteggiamento molto simile: semplicemente non rifiatava, partiva a razzo e basta.

Durante una partita contro i Bulls, che sarebbero poi diventati campioni, Jordan e Pippen si fermano a centrocampo e battibeccano: “prendi tu Marciulionis” - “no, io prendo Mullin, Marciulionis te lo prendi tu”. Due dei più forti difensori della storia del basket impauriti da un lituano di 1 metro e 96.


Purtroppo per i tifosi di Golden State e per tutti gli appassionati, il loro formidabile attacco Run T-M-C bruciò i parquet della Association per sole due annate prima di essere separato per interessi societari. Richmond nel ’92 approdò a Sacramento, ad un’ora di auto da Oakland e Golden State, guastando i palati della baia, che avrebbe molto probabilmente potuto pregustare successi clamorosi di lì a breve, senza dover aspettare l’avvento di Steph Curry & Co.

photo source: nba.com

- Davide D’Ambrogio -

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