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Rick Fox: il gladiatore giallo-viola

Quando pensiamo alle grandi dinastie cestistiche che hanno brillato nel corso della storia Nba il nostro pensiero si rivolge immediatamente alle stelle che le hanno caratterizzate. Basti pensare ai leggendari Celtics degli anni ’60, guidati da un’insormontabile Bill Russell che li condusse a ben 11 titoli, o ai Bulls targati anni ’90, vincitori di 6 campionati spalmati in due diversi three peat (1991-1993; 1996-1998), dove l’emblema assoluto di quelle due edizioni dei tori fu un immarcabile Michael Jordan, accompagnato dal suo fido compagno Scottie Pippen.


La lista potrebbe continuare ancora per molto e le stelle degne di memoria e riconoscimento sarebbero tantissime, ma che dire allora dei comprimari, quei giocatori che membri del quintetto base o uscenti dalla panchina sono riusciti con doti specifiche e particolari a determinare in molti casi le sorti positive di quelle squadre, contribuendo in modo decisivo al loro avanzare verso la vittoria? Giocatori in molti casi sulla via del tramonto, ma ancora con qualche dardo di lusso in faretra da scoccare e soprattutto intelligenti a tal punto da saper mettere le loro doti e la loro esperienza al servizio della squadra e della crescita delle giovani stelle. Questi personaggi nell’ Nba moderna hanno rivestito un ruolo più decisivo di quanto si possa pensare, purtroppo in molti casi rimasto celato sotto la pesante molte di video e rotocalchi tesi a mettere in luce i loro talentuosi compagni di squadra. Ecco allora che in tutto questo, rimanendo fedeli al concetto di underdog, abbiamo deciso di posare la nostra lente di ingrandimento analitica su un giocatore che per noi incarna in modo eminente questa categoria. Membro di una di quelle dinastie che a nostro parere ha segnato la storia della lega, i Lakers 2000-2002, il nostro Underdog né è stato senz’altro un degno interprete lasciando un segno indelebile in modo elegante e silenzioso, con la consapevolezza di chi sa come muoversi senza farsi necessariamente notare. Oggi parliamo di Rick Fox e a lui dedichiamo questo approfondimento.



I primi anni: Dal Canada alle Bahamas

Nell’ Nba degli anni ’80 la quasi totalità della manodopera locale era di nazionalità statunitense. Gli afroamericani erano riusciti a legittimare il loro status sociale proprio grazie alla palla a spicchi, che ne aveva messo in luce le straordinarie doti atletiche e tutto sembrava rimanere stabile. Tra i primi giocatori a marcare un cambiamento etnico e culturale della lega fu Rick Fox. Nato in una famiglia multietnica, da padre bahamense e madre canadese, quest’ultima ex atleta professionista di salto che prese parte anche alle Olimpiadi, Fox passò i primissimi anni della sua vita nella terra degli aceri per poi trasferirsi all’età di tre anni sotto al sole di Nassau, dove mosse i suoi primi passi cestistici. Alto e fisicamente ben strutturato, cominciò ad intuire di avere un talento per lo sport inventato da Naismith durante i primi anni di Highschool, quando dominò la scena isolana con notevoli prestazioni offensive, accompagnate da un impatto difensivo forse ancor più sorprendente, tanto che da lì a poco questo aspetto del gioco sarebbe divenuto il suo principale marchio di fabbrica. Divenne il leader della Kingsway Academy, rappresentando i suoi Saints con grande spirito agonistico così come gli era stato insegnato in casa.


Spinto dagli eventi e da una piccola possibilità di sbocco verso il professionismo, Rick decise di alzare ulteriormente il suo livello di gioco trasferendosi negli States e per non farsi mancare niente in Indiana, dove il confine tra basket, sport, religione ed idolatria è veramente molto labile e dove le persone pronte a tifare per te non mancano di certo. Terminò la sua carriera liceale giocando nell’istituto della piccola città di Warsaw, dove le migrazioni etniche provenienti dal Nord e Est Europa avevano determinato una popolazione che affondava le sue principali radici tra Germania, Olanda e Polonia, ma dove il giovane talento delle Bahamas seppe intelligentemente inserirsi, adeguandosi agli stili culturali locali. L’intelligenza, lo spirito di adattamento e la capacità di intuire le situazioni adeguandosi ad esse in modo omogeneo saranno proprio le qualità che porteranno Fox al successo.



Un lungo viaggio al college targato North Carolina

La sua brillante carriera scolastica lo convinse ulteriormente nel voler proseguire il suo cammino verso il professionismo e fu così che la scelta cadde su un Ateneo d’elitè, North Carolina; si proprio dove si era formato Michael Jordan e dove lo avrebbe accolto il guru per eccellenza della pallacanestro Ncaa, tale Dean Smith. È naturale che una volta elevato il livello di competizione Fox dovesse affrontare maggiori ostacoli per affermarsi come talento locale, perché di talento ancora parliamo. Nonostante ciò, se fino a quel momento aveva saputo dare sempre un impatto offensivo alle gare disputate, distinguendosi tra i migliori realizzatori della squadra, adesso le cose sarebbero dovute cambiare. In una realtà di elitè come quella di North Carolina, fatta di grande tradizione e soprattutto di importante appeal cestistico era naturale che i talenti provenienti da ogni parte del paese fossero tanti e molti di questi pronti a farsi la lotta per prendersi un posto di rilievo in squadra. Ancora una volta l’intelligenza del giovane delle Bahamas fu provvidenziale e decisiva per farlo decollare ulteriormente.


Fox decise infatti di abbandonare eventuali atteggiamenti testardi, tesi a sfidare i pari ruolo in lotte di dominio, ma per contro decise di lavorare su ciò che gli veniva meglio, la difesa, quest’ultima in particolare applicata ad un intuito quasi innato che lo portava a leggere con un paio di mosse in anticipo dove sarebbe finita la palla. Adeguò perfettamente il suo gioco alla filosofia di Chapel Hill, dove la difesa veniva prima di tutto, divenendone il massimo rappresentante (ricordate il roaming di Jordan, quello insegnatoli da Smith e riprodotto in gara 6 delle finale del 1998 e decisivo per il titolo? Chiedete a Malone). In poco tempo si trasformò in un arcigno difensore perimetrare, aspetto che si sarebbe rivelato fondamentale al piano di sopra, sfruttando la sua dote di lettura del gioco per rubare palle, occupando furbescamente le linee di passaggio con grandioso tempismo, qualità che lo trasformò nello spauracchio della massima competizione collegiale e che soprattutto lo condusse a divenire il leader assoluto ogni tempo per il suo ateneo nella categoria steal, con ben 197 rubate totali. A tutto ciò aggiunse un’etica del lavoro integerrima e degna di nota che lo condusse a raggiungere una preparazione fisica così elevata da consentirgli 140 presenze totali in quattro anni di college: per essere più chiari 0 assenze tonde. Per lui la squadra veniva prima dell’ego e tutto doveva essere funzionale alla vittoria del titolo, quest’ultimo purtroppo mai raggiunto vestendo la maglia celeste di NCU.



Il salto in Nba: un’avventura inaspettata

Alla fine del suo quadriennio Fox poteva dirsi un giocatore esperto e pronto a compiere il decisivo salto di qualità, quello verso il tanto ambito professionismo, per il quale aveva lavorato alacremente. Si candidò così per il Draft Nba del 1991, venendo scelto con la chiamata numero 24 dai Boston Celtics, in una fase storica in cui i bianco- verdi stavano cercando di impostare una ricostruzione che poteva dirsi obbligatoria. Bird e McHale si apprestavano a terminare una brillantissima carriera Nba che li aveva dato enormi soddisfazioni, ma che adesso li vedeva entrambi alle prese con problemi fisici determinati dall’età, mentre Robert Parish, altro tassello importante avrebbe trovato nuove soddisfazioni con altre franchigie della lega. Boston avrebbe così trascorso anni nel limbo dell’anonimato, situazione sconosciuta ai talenti del New England, in cui giovani come Fox erano chiamati a dare un nuovo slancio emotivo e tecnico, che però tardò ad arrivare. Le sei stagioni di Fox in Massachusetts furono caratterizzate da una buona produzione offensiva, con oltre 15 punti di media fatti registrare nell’ultima stagione, ma con un saldo piuttosto magro di vittorie e partecipazione ai playoffs. Fu così che la dirigenza biancoverde decise di impostare un rebuilding che spedì Fox ai Lakers, movimento che si sarebbe rivelato proficuo per il nativo di Toronto, perché lì avrebbe trovato il giusto luogo per far valere i suoi talenti.


Una volta giunto a L.A. Fox divenne la spina dorsale della panchina giallo-viola, ricoprendo tale ruolo insieme a Fisher e Horry. La squadra era impostata su Kobe e Shaq, destinati a dominarla e a condurla a grandi successi, ma gli ultimi anni ’90 furono la costante proiezione di importanti sogni perduti, che si infransero ripetutamente contro lo strapotere dei Jazz e degli Spurs. Solo con l’arrivo di Phil Jackson i Lakers passarono per una grande ricostruzione tecnica, ma ancor prima mentale. Coach Zen portò in città una cultura buddista che aveva già mostrato le sue fortune all’interno dello spogliatoio dei Bulls. Meditazione, concentrazione e forte applicazione al sistema del triangolo sarebbero stati gli ingredienti essenziali per mettersi un anello al dito. In tutto questo progetto Fox fu in assoluto il Laker che meglio incarnò questa filosofia, trovando con il nuovo allenatore una forte connessione mentale. Entrambi provenienti da una famiglia pentecostale e quindi fortemente dediti alle letture religiose, spesso parlavano la stella lingua e ciò fu decisivo nell’ avvicinarli e unirli verso lo stesso obiettivo.

Fox accettò il ruolo di ala di riserva impostogli da Jackson durante il primo anno e pur assistendo ad una notevole diminuzione del suo fatturato a canestro, Rick seppe costruirsi una solida fama da closer, mettendo canestri pesanti quando i Lakers ne avevano più bisogno e quando le energie realizzative di Kobe e Shaq si esaurivano. A tutto questo aggiungeva il suo solito impatto difensivo sugli esterni, che spesso conduceva Jackson a concedergli lunghi straordinari per poter annullare guardie fisiche e talentuose, come accadde nella finale di western conference del 2000, quando Fox dovette spesso interfacciarsi con un fastidioso Pippen, che ben conosceva i segreti del triangolo, potendone così compromettere il funzionamento, ma soprattutto come avvenne fra il 2001 ed il 2002, quando Fox si rivelò una delle armi fondamentali per ridurre i danni prodotti da un infuocato Stojakovic, spesso piaga per la difesa giallo-viola con i suoi Sacramento Kings. Come fa risaltare lo stesso Jackson all’interno del suo libro “Eleven Rings”, Fox aveva una straordinaria capacità di concentrazione che sapeva riportare in campo durante i momenti più critici.

Allo stesso tempo si rivelò una preziosa arma strategica per la gestione di uno spogliatoio imbottito di tritolo. Per quanto forti e determinanti, Kobe e Shaq furono spesso sull’orlo di pesanti liti che rischiarono di compromettere più di una volta l’interna stagione dei Lakers. In tutto questo Fox fu uno dei migliori legionari di Jackson, riuscendo a reincarnare il suo pensiero da coach all’interno della figura di un compagno di squadra. La sua preparazione mentale e anche culturale lo condusse diverse volte a far ragionare le due giovani stelle, che grazie a compagni come Rick ritrovarono ben presto la retta via per il titolo.


Jackson riconobbe fin da subito l’intelligenza di Fox, tanto da eleggerlo co-capitano per la stagione 2000-2001, intuendone le potenzialità strategiche sia dentro che fuori dal campo. Nel sopracitato libro coach Zen fa spesso riferimento a frasi rilasciate da Rick, il quale più di ogni altro sapeva ascoltare le voci dello spogliatoio non per trasformarle in pettegolezzi, ma per analizzarne le dinamiche emotive che avrebbero poi facilitato il lavoro del suo allenatore nel catalizzarle verso un utile agonismo per la vittoria. Dal primo all’ultimo giorno come Lakers giocò la sua pallacanestro adattandola ai bisogni della squadra in base alle specifiche situazioni, riuscendo a restituire le sue qualità in base alle richieste che gli venivano fatte, come accade in gara 1 delle Finals contro Philadephia, quando fu autore di 19 punti determinanti per tenere a galla i suoi nonostante la sconfitta o come avvenne con la sua straordinaria difesa applicata ad una sanguinosa serie contro i Kings favoriti per il titolo, in cui Fox fu l’emblema del giocatore operaio e volto a inceppare uno dei più mortiferi attacchi della lega.

Recentemente Kobe Bryant, in occasione della cerimonia di ritiro dei suoi due numeri ha dichiarato che se dovesse affidare l’ultimo tiro di una partita importante, dalla quale dipendesse la sua vita, affiderebbe quel tiro a Rick Fox, se si trovasse nell’angolo. Che sia vero o meno noi lo sceglieremmo senza dubbio per fare una squadra, perché Rick Fox è l’emblema di un giocatore che ha dimostrato di poter essere un campione assoluto senza necessariamente giocare come una super star.

Le utilissime fonti per questo articolo provengono dal libro di Phil Jackson, “Eleven rings”, nel quale vengono riportati interessanti aneddoti sull’esperienza del coach americano con i Lakers.


photo source: clutchpints.com


Francesco Santeramo – Redazione Underdogs

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